venerdì, novembre 06, 2015

SILVIO BOTTEGAL - RECENSIONE GIOVANNI COMMISSO


Da tempo io prediligo i pittori contrariati dal destino, che non vendono i loro quadri a metri quadrati, che il grande pubblico ignora e che le gallerie d'arte non osano il rischio di sostenerli nel giro turbinoso degli affari: tramite l'arte.
Dopo aver trattato su un altro giornale di Juti Ravenna, pittore solitario tratto qui del pittore Silvio Bottegal. Egli pure è un artista solitario, vive solo nell'immensa compagnia della natura. Non ha la fortuna di certe schiere che per la loro giovinezza subito che presentano le loro opere combinate con scaltrezza su riverberi dei maggiori artisti contemporanei o su quelli dei grandi del passato, vengono acquistati e divulgati con affermazioni, che più che incoraggiare, uccidono le loro promesse. Da oltre vent'anni egli lavora e non è mai uscito nell'esporre oltre i confini della sua provincia. Conosce tutte le tendenze moderne, italiane e straniere, ma non ha mai voluto crederci e subirne l'influenza, sapendo come onesto e utile principio per l'artista sia credere solo in se stesso: nel proprio evolversi entro alla matrice del mondo. Incominciò con piccoli quadri, piccoli anche per ragioni di denaro, dove egli riversava la sua vibrante malinconia su viottoli pantanosi di campagna, tra aride e lucenti siepi d'inverno, e panorami della campagna veneta con cieli lontani sui monti sentiti come continenti di sogno, dove egli sa di non potere mai arrivare in viaggio, e binari di scali merci con vagoni fermi come in una sosta eterna e baracconi di fiera e carrozzoni di zingari, tutto un mondo ricercato con la guida della sua umiltà e della sua certezza di fare per tutta la sua vita parte con gli elementi più secondari, più abbondanti, più dimenticati. In questo suo primo periodo egli fa pensare per la tenacia delle pennellate, a certi pastori che soli sull'alto di un colle sorvegliano il gregge e intanto a colpi di roncola intagliano il proprio bastone ricavandone nel manico o una testa di pecora o una serpe. Su minute, calcolate, misurate pennellate che si compongono nella breve dimensione in un racchiuso frammento di vita accordata alla sua anima malinconica. Malinconica la sua anima, trova, come quella del grande desolato filosofo, i suoi momenti di lieta danza nel suono del flauto. Qui egli si fa in un bosco di fantasia fauno abbandonato dalle ninfe e con la sua zampogna invoca alla terra un sollievo nella sua solitudine. E la musica lo rapisce nella sua sola gioia. Trova in questi esercizi musicali la sua danza, ma non aderisce portandone il senso nella sua forma di espressione che è la pittura. Ne è seguito un altro periodo con colori più limpidi, e pennellate più distese, ma timoroso di essersi troppo concesso di libertà, nel suo cauto procedere, si tenne tra tenui grigi e pallidi verdi. E' di questo periodo il quadro Primavera, dove un asinello segna con la sua ombra al primo sole il verde rinascente di un prato, e l'asinello stesso è come l'ombra di un altro, lontano si rivelano alcune bianche case e i monti sono come terre emergenti dalle acque tra l'asinello e la lontananza vi è l'accordo di un campo giallo di ravizzoni con quello smeraldino del frumento, ma il segreto della primavera è tutto scoperto con un semplice soffio nell'ombra dell'asinello e nella timidezza de i colori e delle forme a farsi riconoscere al tenue sole. Recentemente egli ha preso a dipingere a l'acquerello e su dimensioni maggiori. Come coloro che hanno strettamente trattenuto i propri istinti e che si trovano nel corso della via a manifestare una sempre fiorente giovinezza, o come certi altri centenari che non hanno mai sorprendenti impeti di foglie o di frutta, egli dopo venti anni di costante minuta corrispondenza con la pittura ha ora improvviso questo nuovo virgulto scaturito dalla base del suo arido tronco, tutto vibrante di illuminate foglie. Paesaggi, ritratti, e fiori, con quella disinvoltura che si doveva prevedere dopo tanto esercizio di parsimonia sono gli argomenti dei suoi acquerelli. E quell'abbandonarsi del suo spirito nel suono del flauto egli ha saputo trasfonderlo in questo nuovo
genere di pittura. Qui il pennello danza lieto e quasi coraggioso come se ninfe fossero riapparse ai suoi occhi panici. Non sono che abbandoni di forma, la sua malinconia sorregge sempre il quadro al centro, sia esso un ritratto o un roseo mazzo di fiori, di fiori che gli appartengono solo nel breve tempo che li ritrae, perché non sono del suo giardino, ne gli sono stati regalati, ma solo li ha avuti in prestito dal fioraio, non potendo comperarseli.
Giovanni Comisso


Tratto dal libro “ Silvio Bottegal – pittore e poeta” edito dalla tipografia “ Editrice Trevigiana “ Treviso 2 giugno 1971 in occasione della mostra presso Ca da Noal – Treviso pp. 18 - 20

Nessun commento: